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E nel presente tenete altro modo.»

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«Noi veggiam, come quei che ha mala luce,
Le cose >> disse «che ne son lontano;
Cotanto ancor ne splende il sommo Duce.
Quando s' appressano, o son, tutto è vano
Nostro intelletto; e, s' altri non ci apporta,
Nulla sapem di vostro stato umano.
106 Però comprender puoi che tutta morta
Fia nostra conoscenza da quel punto
Che del futuro fia chiusa la porta.»>
Allor, come di mia colpa compunto,

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Dissi: «Or direte dunque a quel caduto
Che il suo nato è co' vivi ancor congiunto.
112 Es' io fui dianzi alla risposta muto,

99. NEL PRESENTE: in quello che riguarda le cose presenti. -TENETE ALTRO MODO: non avendone conoscenza. Cavalcante non sapeva se suo figlio fosse ancor vivo o nò. I dannati non conoscono secondo Dante che l'avvenire, e nol conoscono neppur chiaramente; i beati all' incontro veggono chiaramente il presente, il passato e l'avvenire.

100. NOI: noi dannati; ma forse anche: noi eretici. HA MALA LUCE: è presbite, ha cattiva vista. Senso: noi vediamo il futuro sì, ma non lo vediamo chiaramente.

101. NE SON: le cose che ci sono ancor lontane

l'avvenire.

102. COTANTO: Iddio cotanto di splendore ancora da a noi dannati, che noi sappiamo le cose future per le loro cagioni. Buti. - Dicit beatus Thomas quod anima exuta corporalem sensibilitatem nihil intelligit aut sapit ultra suam propriam naturam, quae est intelligere intellectualiter, et velle, et sic futura scit et universalia. Petr. Dantis.

103. S' APPRESSANO: quando le cose future sono vicine o presenti. È VANO NOSTRO INTELLETTO: rispetto alle imagini delle cose vedute che più non vi sono. Niente vedono quando le cose s' appressano o sono, e niente hanno nell' intelletto, secondo anche la sentenza aristotelica: Nihil est in intellectu, quod prius non fuerit in sensibus. Di Siena. 104. NON CI APPORTA; cioè novelle. Al. nol ci apporta. 105. SAPEM: sappiamo; vd. Inf. IV, 42 ecc. STATO condizione. 106. MORTA: estinta. La conoscenza sarà annullata ( prosis xatap

γηθήσεται); Ι Ep. ad Cor. XIII, 8.

107. DA QUEL PUNTO: dal dì del giudizio finale.

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108. CHIUSA LA PORTA: non vi saranno più cose future, nè cose passate, ma soltanto eterne, cioè presenti. Questa conclusione seguita dalle predette, che ogni conoscimento de' dannati verrà meno dopo il giudicio: imperò che, se lo loro conoscimento non si estende se non al futuro e da indi in là non sarà più futuro, però che sarà vita eterna, seguita dunque che non conosceranno più alcuna cosa, imperò che non sarà se non presente.» Buti. Il presente non lo conosceranno, poichè non vi verranno più altri, cioè nuove anime, onde apportarne novelle.

109. COLPA: di aver indugiato a rispondere alla dimanda di Cavalcante, v. 67-72, e così tenuto in ambascia il cuor di padre. 110. A QUEL: a Cavalcante, vd. v. 72.

111. NATO: il suo figlio, cfr. Inf. IV, 59. Vuol dire : Dite a Cavalcante che il suo Guido vive ancora. Guido Cavalcanti morì nel 1300 in conseguenza dell' infermità cagionatagli dall' aria insalubre di Sarzana dove era stato relegato. Vd. nt. al v. 94.

112. DIANZI: poco fa. domanda.

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Fat' ei saper che il fei perchè pensava
Già nell' error che m' avete soluto.»
115 E già il maestro mio mi richiamava

Perch' io pregai lo spirto più avaccio
Che mi dicesse chi con lui stava.
118 Dissemi: « Qui con più di mille giaccio;
Quà dentro è lo secondo Federico,
E il cardinale, e degli altri mi taccio.»
Indi s' ascose; ed io in vêr l'antico
Poeta volsi i passi, ripensando

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A quel parlar che mi parea nemico. 124 Egli si mosse; e poi, così andando

127

Mi disse: «Perchè sei tu sì smarrito?»>
Ed io gli satisfeci al suo dimando.

«La mente tua conservi quel che udito

113. FAT' EI: fategli sapere. Ei a lui è il lat. ei. Cfr. Purg. XII, 83. 114. NELL' ERROR: all' error: pensare in q. c. per pensare a q. c. usarono sovente gli antichi. Pensando nella offesa ch' egli fatta gli avea. Tav. Rit. c. 39. In altra mai non pensai se none in lei. Ibd. c. 81. ERROR: «del non saper voi il presente. Quel suo non sapere della sorte di Guido, e quell' avere udito da Ciacco e da Farinata annunzi del futuro, lo confondevano,» Tom. SOLUTO: Sciolto.

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116. PIÙ AVACCIO: con maggior fretta. 119. FEDERICO: Federico II Imperatore. Questo Federigo . . . fue ardito e franco e di gran valore, e di scritture, e di senno naturale fue savissimo, e seppe la lingua nostra Latina, e 'l nostro volgare, e Tedesco, Francesco, e Greco, e Saracino, e di tutte vertudi copioso, largo e cortese: ma fue dissoluto in lussuria, e tenne molte concubine, e mammolucchi a guisa di Saracini, e 'n tutti i diletti corporali si diede, e quasi vita Epicura tenne, non facendo che mai fosse altra vita.» Ricord. Malisp. c. 107. È noto che Federico fu incolpato (probabilmente a torto) di essere l'autore del famoso libro: De tribus impostoribus. Intorno alle relazioni di Dante con Federico vedi Vigo, Dante e la Sicilia. Palermo 1870. pag. 15-20 e 44 e seg.

120. IL CARDINALE: Ottaviano o Attaviano degli Ubaldini; fiorì verso il 1260, e fu anche poeta volgare; cfr. Nann. Man. ed. 2a. vol. 1. pag. 352. - «Adunò molto oro, e comperò molte tenute, ville e castella.» Ricord. Malisp. c. 103. Era ghibellino; alla novella della sconfitta de' Guelfi presso Montaperti «ne fece grande festa», Ibd. c. 173. --- «Et però che questo cardinale Ottaviano fu il maggiore di veruno altro cardinale a quel tempo, per eccellenzia (= per antonomasia) dicendo il Cardinale, s' intendea di Ottaviano. Questi guidò la corte di Roma com' egli volle, e inalzò molto i consorti suoi et i ghibellini di Toscana, tanto ch' egli usò di dire: Se anima è, per i Ghibellini io l'ho perduta; et però che parve dubitare se anima fosse o spirito doppo il corpo morto, il pone l' Auttore tra gli eretici.» An. Fior.

121. INDI: detto questo. s' ASCOSE: nel suo avello, riponendosi a giacere. -INVER: verso. L'ANTICO POETA: Virgilio.

123. A QUEL PARLAR: alla parole dettegli da Farinata, v. 79-81, le quali gli predicevano l' esiglio nonchè la vanità de' suoi sforzi onde ritornare in patria. -NEMICO: poichè gli annunziava infortunî.

125. SMARRITO: sbigottito; Dante era assorto in pensieri sopra le pa

role udite da Farinata.

126. SATISFECI: gli manifestai i miei pensieri.

127. CONSERVI: non dimenticare quanto ti fu detto, ma per ora non pensarci troppo, dovendo tu attendere ad altro.

Hai contra te», mi comandò quel saggio;
« Ed ora attendi quì»;

e drizzò il dito.

130 «Quando sarai dinanzi al dolce raggio
Di quella il cui bell' occhio tutto vede,
Da lei saprai di tua vita il viaggio.»
133 Appresso volse a man sinistra il piede:

Lasciammo il muro, e gimmo in vêr lo mezzo
Per un sentier che ad una valle fiede

136 Che in fin lassù facea spiacer suo lezzo.

129. ATTENDI QUÌ: fa attenzione a ciò che tu vedi dinanzi a te; poni la tua attenzione alle cose di qua. Virgilio lo ammonisce con queste parole a por mente alle pene de' dannati, la cui salutifera contemplazione è l'oggetto del suo viaggio. Non ci possiamo persuadere che Virgilio abbia soltanto voluto dire: attendi a quello che ti voglio dire, come alcuni commentatori pretendono. DRIZZÒ IL DITO: non già verso il cielo, anzi, come bene spiega il Di Siena, accompagnò la parola col gesto, drizzando e dirigendo il dito verso il luogo dinotato dall' avverbio qui; l'atto della mano simultaneo alla proferenza della voce rese la sentenza più efficace ed evidente.

131. DI QUELLA: di Beatrice. Virgilio sa tutto, Inf. VII, 3, cioè umanamente; Beatrice vede tutto, in Dio.

132. DA LEI: le sue future vicende il poeta le intese nel Paradiso per bocca di Cacciaguida (cfr. Parad. XVII); ma Beatrice è colei che lo guida in Paradiso, e che lo esorta a chiederne Cacciaguida (Parad. XVII, 7 e seg.). IL VIAGGIO: il corso della tua vita.

133. APPRESSo: dopo che Virgilio ebbe dette queste parole. 134. IL MURO: della città di Dite.

LO MEZZO: del cerchio.

135. FIEDE: ferisce, riesce, va a finire;

va difilato ad una valle.

136. LASSÙ: dove si ritrovavano adesso, poichè «a paragon dell' abisso erano tuttavia molto in alto.» Tom. Così quasi tutti i commentatori. Ma a noi quel lassù sembra voler dire su nel mondo, come nel v. 12 di questo stesso canto. «E il fumo del tormento loro salirà ne' secoli de' secoli. >> Apoc. XIV, 11. - LEZZO: puzzo.

NOTA A. (Ai v. 25 e seg. del C. X.)

FARINATA DEGLI UBERTI. Fu uomo d' ordine militare, nato della nobile stirpe degli Uberti discesi di Catilina. Nella sua adolescenza fu nell' arti liberali esercitato, dove dette speranza di grande uomo, e pervenuto alla gioventù, scorrendo spesso a' nimici infino presso alla terra, per le divisioni che in que' tempi regnavano, era quasi sempre capitano dell' esercito, e spesse volte con tanta prestezza vinse i superbi nimici, che impossibile parea pure a pensare, donde la sua fama diventò celebre per tutta Italia. Ma fidandosi egli troppo del riso della fortuna e volendo quasi solo governare la repubblica, fu cacciato dalla parte contraria, onde a Siena, dove gran copia di sbanditi si trovava, n' andò (Fil. Vill. Vite d' illustri Fiorentini). E non solamente fu capo e maggiore della famiglia degli Uberti, ma esso fu ancora capo di parte ghibellina in Firenze, e quasi in tutta Toscana, si per lo suo valore, e sì per lo stato, il quale ebbe appresso l' imperador Federigo secondo (il quale quella parte manteneva in Toscana, e dimorava allora nel Regno); e sì ancora per la grazia, la quale, morto Federigo, ebbe del re Manfredi suo figliuolo, con l'aiuto e col favore del quale teneva molto oppressi quelli dell' altra

che

parte, cioè i guelfi: e secondochè molti tennono, esso fu dell' opinione d' Epicuro, cioè che l' anima morisse col corpo; e per questo tenne, la beatitudine degli uomini fosse tutta ne' diletti corporali (Bocc. Com. sopra la Com.). Farinata morì nel 1264.

BATTAGLIA DI MONTEAPERTI. Fra i Ghibellini che nel Luglio del 1258 furono scacciati da Firenze e in Siena «come luogo sicuro e nido de' Ghibellini» (Bellarmati, pag. 68) ritraevansi, si ritrovava pure Farinata degli Uberti, «di valore, di autorità e di consiglio sopra gli altri » (Ibd., p. 2). Minacciati continuamente dai Guelfi di Firenze i Sienesi ed i fuorusciti fiorentini mandarono ambasciadori a Napoli, onde implorare il soccorso di Manfredi, il quale «promise dare loro cento cavalieri Tedeschi» (secondo altri dugento) «per loro aiuto» (Ric. Mal. c. 167. G. Vill. 1. VI, c. 74.) Il sussidio essendo lieve gli ambasciadori erano lì 11 per rifiutarlo. Ma Farinata, che era dell' ambasciata, vi si oppose dicendo: «Non vi sconfortate e non rifiutate suo aiuto, e sia piccolo quanto si vuole; pure facciamo che di grazia mandi con loro la sua insegna, chè venuti a Siena noi la metteremo in tale luogo, che converrà che ce ne mandi più» (Ric. Mal. c. 167. G. Vill. 1. VI, c. 74. Bellarmati, p. 69). Nel Dicembre del 1259 gli ambasciadori giunsero a Siena con que' cavalli. Nel Maggio del seguente anno, allorchè i Fiorentini erano usciti all' assedio di Siena, «gli usciti di Fiorenza uno giorno diedono mangiare a' Tedeschi di Manfredi, e feciongli bene avvinazzare: a romore caldamente gli feciono armare per fare assalire a loro l'oste de' Fiorentini, promettendo loro grandi doni, e ciò fu fatto cautamente per li savi, seguendo il consiglio di M. Farinata degl' Uberti. I Tedeschi fuori di senno e caldi di vino, uscirono fuori vigorosamente, e assalirono il campo, e perchè i Fiorentini erano improvvisi con poca guardia, avendo per niente la forza de' nimici, avvegnach' e' Tedeschi fussono poca gente, in quello assalto feciono all' oste gran danno; e molti del popolo e dei cavalieri in quel punto feciono mala vista, fuggendo per tema che quelli che gli assalirono non fossono più gente. Ma ravveggendosi, presono l' arme alla difesa contro a' Tedeschi, e quanti n' usci di Siena, non ne campò veruno vivo (?), che tutti furono morti, e la 'nsegna di Manfredi presa e trascinata per lo campo, e recata in Fiorenza» (Ric. Mal. c. 168. G. Vill. 1. VI, c. 75.). Ciò avvenne ai 18 di Maggio. Farinata, il cui disegno era riuscito, non tralasciò di informar subito Manfredi del modo tenuto da' Fiorentini colla sua reale insegna. Indispettitone il re mandò a' fuorusciti fiorentini ed a' Sienesi il conte Giordano con un nuovo aiuto di ottocento cavalieri. Ma non essendo questi pagati che per tre mesi bisognava procurare di trar subito in campo i Fiorentini, «la quale industria fu commessa a M. Farinata degli Uberti ed a M. Gherardo Accia de' Lamberti» (Ric. Mal. c. 170. G. Vill. 1. VI, c. 77). Ingannati dalla speranza di impadronirsi della città i Fiorentini mossero nell' Agosto verso Siena, quantunque Tegghiaio Aldobrandi risolutamente vi si opponesse (Vedi sopra Inf. XVI, 41). L'esercito fiorentino, che vuolsi fosse composto di più di trentamila pedoni, e più di mille cavalieri, marciava come a sicura vittoria, sperando dover senza combattere entrare in Siena. Giunto sui colli di Monteaperti in sul fiume d' Arbia l'esercito guelfo si arrestò per aspettar l'avviso dei Sienesi di procedere più innanzi. Ma invece di ciò ecco uscirgli incontro un' esercito ghibellino, inferiore in numero sì, ma assai ben' ordinato. «Quando quelli dell' oste, ch' attendeano che fosse loro data la porta, viddono uscire i Tedeschi e gli altri cavalieri e popolo di Siena inverso loro con vista di combattere, si isbigottirono forte, veggendo venire il subito assalto, e essi non provveduti, e maggiormente che più Ghibellini del campo veggendo appressare le schiere de' nimici, com' era ordinato, si fuggirono dall' altra parte, com' erano quelli della Pressa e degli Abati, e più altri, e però non lasciarono i Fiorentini e loro amistade, di fare loro schiere e attendere alla battaglia. E come la schiera de' Tedeschi rovinosamente percosse, M. Bocca degli Abati traditore (cfr. Inf. XXXII, 106), colla spada in mano fedie e tagliò la mano a M. Jacopo de' Pazzi di Fiorenza, il quale tenea la 'nsegna della cavalleria del Comune di Fiorenza. E veggendo i cavalieri e il popolo la 'nsegna abbattuta e il tradimento, si misono in isconfitta. Ma perchè i cavalieri in prima s' avvidono del tradimento, non ve ne rimasono altro che trentasei uomini di nome tra morti e presi. Ma la grande mortalità e presura fu del popolo

di Fiorenza a piè, e de' Lucchesi e Orvietani: perocchè si rinchiusono nel castello di Monte Aperti, e tutti furono presi e morti, e più di dumila cinque cento ne rimasono in sul campo morti, e più di mille cinque cento presi pure di quelli del popolo, de' migliori di Fiorenza, e de' Lucchesi e degli altri amici; e così si domò la rabbia dello ingrato e superbo popolo di Fiorenza. E ciò fue uno martedì a di quattro Settembre nel 1260. E rimasevi il carroccio, e la campana detta Martinella e molto arnese de' Fiorentini e di loro amistadi. E per questa cagione fue rotto e annullato il popolo vecchio di Fiorenza, che era durato in tante vittorie e in grande stato per dieci anni» (Ric. Mal. c. 171. G. Vill. 1. VI, c. 78). Vedi la descrizione accurata della battaglia di Monteaperti di Bart. Aquarone nel volume: Dante e il suo secolo, Fir. 1865. pag. 881 e seg., e l'opera dello stesso autore: Dante in Siena, ovvero accenni alle cose Sanesi, Siena, 1865.

DIETA DI EMPOLI. «In questo tempo Pisani e Sanesi e Aretini, col detto conte Giordano e con gli altri caporali ghibellini di Toscana, ordinarono fare parlamento a Empoli, per riformare lo stato di parte ghibellina in Toscana, e fare taglia; e così feciono. E perocchè al conte Giordano convenia tornare in Puglia al re Manfredi, per mandato del detto Manfredi fu ordinato suo vicario generale in Toscana il conte Guido Novello de' conti Guidi di Casentino e di Modigliana, il quale per parte disertò il conte Simone suo fratello, e 'l conte Guido Guerra suo consorto, e tutti quelli di suo lato che teneano parte guelfa, e disposto era al tutto di cacciarne chi guelfo fosse di Toscana. E nel detto parlamento tutte le città vicine, e' conti Guidi, e' conti Alberti, e quelli di Santa Fiore, e gli Ubaldini, e tutti i baroni d' intorno proposono e furono in concordia, per lo meglio di parte ghibellina, di disfare al tutto la città di Fiorenza, e di recarla a borgora, acciocchè mai di suo stato non fosse rinomo, fama nè potere. Alla quale proposta si levò e contradisse il valente e savio cavaliere, M. Farinata degli Uberti, e nella sua dicerìa propose gli antichi due grossi proverbi che dicono: come asino sape, così minuzza rape; e: vassi capra zoppa se lupo non la intoppa; e questi due proverbi rimestì in uno, dicendo: come asino sape, si ea capra zoppa; così minuzza rape, se'l lupo non la 'ntoppa; recando poi con savie parole esempio e comparazioni sopra il grosso proverbio, com' era follia di ciò parlare, e come grande pericolo e danno ne poteva avvenire, e se altri ch' egli non fosse, mentre ch' egli avesse vita in corpo, colla spada in mano la difenderebbe. Veggendo ciò il conte Giordano, considerando e l' uomo, e dell' autoritade ch' era M. Farinata, e il suo gran seguito, e come parte ghibellina se ne potea partire, e avere discordia, si rimasono del detto parlare, e intesono ad altro. E così per lo valente cittadino scampò la nostra città di Firenze da tanta furia, distruggimento, ruina. Ma poi il detto popolo di Firenze ne fu ingrato, male conoscente contra il detto M. Farinata, e sua progenie e lignaggio.» (Ric. Mal. c. 174. G. Vill. 1. VI, c. 81.) Cfr. Aquarone: Dante e il suo secolo, pag. 898. 899. Dante e Siena, pag. 21. 34.

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