Imágenes de página
PDF
ePub

NOTA al v. 67 del Canto XXXI.

Gli antichi espositori del poema Dantesco non scorsero veruna difficoltà nelle strane parole che il Poeta pone in bocca al gigante Nembrotto, e senza dubbio essi non s' immaginavano neppur per sogno che questo verso dovesse un giorno venir considerato come una croce degli interpreti, e che vi si scrivesse sopra una mezza biblioteca. A nessuno di essi cadde in pensiero di andar interrogando le lingue orientali, onde poi torturare il verso per costringerlo a rendere un senso qualunque. Alcuni di essi saltano semplicemente il verso a piè pari, senza spendervi sopra una sola parola. Così Pietro di Dante, il falso Boccaccio, il postill. Cassin., l' Anon. edito dal Selmi, il Buonanni. Altri si contentano semplicemente di osservare che le parole di Nembrotto non rinchiudono in sè senso veruno. Jacopo della Lana che si crede il più antico commentatore di Dante, e che scriveva circa un lustro dopo la morte dell' Alighieri, chiama gli accenti dell' incatenato gigante parole le quali hanno nulla a significare. Lo stesso ripete l' Ottimo, che del resto esprime il concetto un po' più chiaramente, scrivendo: parole le quali ad intelletto nulla significano. D'accordo con questi due scrive anche l' Anonimo Fiorentino, il terzo fra gli antichissimi le cui chiose giunsero sino a noi: Queste parole a senso non importano niente; se non che sono qui poste a libito dell' Auttore. Ma già ai tempi dell' Imolese sembra che alcuni cominciassero a lambiccarsi il cervello per iscoprire nel famoso verso un qualche significato. Dopo aver ripetuto quanto i suoi precessori avevano osservato, che le parole di Nembrotto non hanno significato, Benvenuto aggiunge: ma posto ancora che ne avessero, COME ALCUNI INTERPRETI SI SFORZANO TROVARLO, nulla significherebbero, se non a mostrare, che il costui linguaggio non era intelligibile ad alcuno. Senonchè la chiosa, tal quale l' abbiamo prodotta, e massimamente le parole come alcuni interpreti si sforzano trovarlo, sembrano scritte nel secolo decimonono, anzichè nel decimoquarto, e risvegliano nella mente di chi conosce siffatti studi il dubbio, se esse non derivino dalla penna del sedicente traduttore, o da un qualche interpolatore, piuttosto che dal dotto Imolese. Questo dubbio viene convalidato se osserviamo che degli alcuni interpreti non solo non è giunta veruna notizia a noi, ma neppure ai commentatori più vicini all' età dell' Imolese. Che Francesco da Buti di tali ingegnosi interpreti non avesse la minima notizia, ci sembra risultare chiaramente dalle sue parole: Queste sono voci senza significazione: altrimenti, chi ci volesse dare significazione, mostrerebbe che l'autore avesse contradetto a sè medesimo. Anche Guiniforto Bargigi si contenta di osservare che le parole del gigante non hanno, secondo verità, interpretazione alcuna, senza accennare pur con una sola sillaba che alcuni interpreti si sforzassero di trovarvene una. Non crediamo pertanto di allontanarci troppo dal vero, se, nonostante l' osservazione che si legge nel commento del Rambaldi «voltato in italiano» dal Tamburini, asseriamo che, sino alla fine del secolo decimoquarto tutti i commentatori concordano nell' opinione, che le parole di Nembrotto siano voci prive di senso.

Il Landino, per quanto veggiamo, fu il primo ad esprimere l'idea che le parole di Nembrotto potesser forse derivare dalle lingue semitiche, Queste parole, ei dice, niente significano, et posto che significassino, non se ne può trar sententia intera, ma bene, mediante la caldea lingua, si potria alcuna cosa intendere, onde sopra di quella investigherai. Nondimeno i suoi successori stettero all' interpretazione antica, senza andar investigando nella lingua caldea onde cavare un senso qualunque dal grugnito del fiero gigante. Il Vellutello dice molto assennatamente: Queste sono parole del gigante, che il poeta le pone per dimostrare la confusion delle lingue, che nacque dalla sua superbia, perchè nulla rilevano. E il Daniello: Le quali parole, tutto che appresso di noi nulla rilevino, et siano di nessun significato, vuol nientedimeno, che esse in suo linguaggio confuso alcuna cosa significassero. Con queste parole il commentatore è ben lungi dal voler asserire, che mediante alcuna lingua semitica sia possibile di rilevare il senso di esse parole, ma ei vuole semplicemente osservare che, quantunque esse per noi non abbiano verun senso, tuttavia nella mente del gigante ne avevano uno, il che nessuno ha posto nè vorrà porre in dubbio. Il Dolce,

il Volpi e il P. Pompeo Venturi si accontentano di nuovo di osservare che le parole di Nembrotto sono di nessun significato; soltanto il primo dei tre mentovati commentatori aggiunge: o di confusa significazione. Anche il Lombardi, dopo aver addotte due lezione varianti del verso, aggiunge: e le parole significano sempre lo stesso nulla che Dante medesimo intende che significhino.

Dal sin qui detto risulta che pel corso di cinque secoli tutti i commentatori della Divina Commedia ritennero le parole di Nembrotto esser voci che nulla significano, e che il Poeta faccia parlare il gigante in tal modo, per dare al lettore un' idea della confusione delle lingue. Se questa interpretazione sia o nò secondo la mente di Dante lo vedremo nel corso della presente digressione.

Ma il Landino colla sua fatale osservazione: mediante la caldea lingua si potria alcuna cosa intendere, onde sopra di quella investigherai, avea additato ai futuri studiosi del Poema sacro la via, se non di pervenire a comprendere il senso del verso dantesco, almeno di far pompa del loro ingegno e della loro erudizione filologica. Ed ecco l' ab. Giuseppe Venturi sul principio del nostro secolo venir fuori con una nuova interpretazione! (Giornale Veronese No. 21. 22 del 16 e 19 marzo 1811; cfr. Studi inediti su Dante Alig. Fir. 1846. pag. 33 e seg.). Eprxa! Epyxa! Il linguaggio di Nembrotto non è un solo, ma è un misto d' ebraico, di cui è la prima voce, e de' suoi dialetti, di cui sono le altre parole. Ma qual è dunque il significato del verso? Eccolo: Per dio, e perchè mai sono in questo pozzo? torna addietro, nasconditi! Di certo non si può negare che con un poco di buona volontà sia possibile ricavare dalle lingue semitiche qualche consimile spiegazione. Si incomincia coll' insegnarci che Dante, o chi per lui fece il verso, era tanto addentro nello studio delle lingue semitiche, da farne un bel verso composto di parole tolte da diversi dialetti, e si continua poi col dirci che quel poeta era nello stesso tempo così ignorante da non saper scrivere correttamente le parole da lui usate, e così ognuno resterà persuaso che il commentatore sia un valente filologo. Ma affinchè gli studiosi di Dante non cadessero in tentazione di accettar per vera l' interpretazione del celeberrimo poliglotta Veronese, le «nuove interpretazioni» incominciarono da quel tempo in poi proprio a diluviare. Michelangelo Lanci (Dissertazione sui versi di Nembrotto ecc. Roma 1819. cfr. Perticari: Opere Mil. Bettoni, Vol. IV, p. 102-131. D. Ricci : Lettera a M. Olivieri, Roma 1819) sostiene che il verso debba spiegarsi coll' idioma arabo e che valga: Esalta lo splendor mio nell' abisso come rifolgorò per lo mondo, e indovinala grillo che diamine queste parole vengano mai a dire in bocca di Nembrotto! Anche i tedeschi Ammon e Flügel vogliono spiegare il verso dall' arabo, discordando poi nell' interpretazione di esso dal Lanci e fra loro. Il primo traduce: Quam stulte incedit, Alumina Orci, puer mundi mei! All' incontro il Flügel traduce il nostro verso: Genommen hat meinen Glanz eine Tiefe siehe da jetzt meine Welt! (Un pozzo ha rapito il mio splendore ecco ora il mio mondo!) Vedi il Commento del Filalete e Blanc: Versuch ecc. p. 271-273. G. P. Maggi (Giornale dell' Instituto Lombardo, 1854. cfr. Hammer-Purgstall, nello stesso Giornale, 1854. VI, 302) propone di leggere il verso: Rap el mai amech zabi al-mi, e lo interpreta: Contro chi vieni tu all' acqua del gigante, al profondo, ossia al pozzo, del Zabio? Un' Anonimo (Rivista Italiana, 1864, No. 176. cfr. L. Lizio-Bruno nel Giornale del Centenario di Dante, p. 200202), rinnovando in certo modo l'ipotesi del Venturi, pretende che il verso sia un miscuglio di ebraico e di caldaico, lo interpreta: Lascia o Dio! perchè dissolvere il mio esercito (la mia potenza) nel mio mondo? Era appena passato un anno che G. Veludo (Frammento di Chiosa sopra il canto XXXI dell' Inferno. Venezia 1865) venne fuori con una nuova interpretazione, presa, come egli dice, da un pezzo di cartapecora servente di coperta ad un «codice greco, cartaceo, in quarto, del secolo quattordicesimo», che un suo amico «trovò in un convento di monaci nelle Sporadi.» La chiosa è la seguente: Qui uno gigante che più avanti è dicto Nenbroto dice alquante parole scure et di nullo senso: et io ho udito dire a messer Piero Giardino, uomo arguto et sottile in lettera, lo quale s' andò al Signore già è du' anni, siccome l'autore volendo significare la confusione de' linguaggi a tempo di Nenbroto messeli in bocca parole is cortesi et ingiuriose a Vergilio, et traspuose le lettere di catuna parola, le quale dalla diricta parte a la

-

manca leggendo et diversamente insieme pognendo, dicono: MALI CIBA CHE AMI MAL FARE. Quantunque la chiosa sia un' evidente falsificazione di chi fu istruito alla scuola del Rossetti, non vi mancò chi prese a sostenere e difendere tale interpretazione (S. R. Minich: Sopra un' antica chiosa testè scoperta ecc. Venez. 1865). Finalmente C. H. Schier (Supplément des commentaires sur la Divine Comédie, Dresde 1865) pretende di nuovo che il verso sia composto di parole arabe. Il faut écrire:

Raf elmai amech zabi aalmi

et sans forcer ni la grammaire ni le sens des mots, traduire le tout ainsi : Summa mea in fundum cecidit vis gloria mundus.

Abbiam posto dinanzi agli occhi de' lettori tutte queste si diverse interpretazioni, perchè appunto la loro molteplicità e diversità è troppo parlante. Da questa molteplicità e diversità ne risulta che, nonostante la possibilità di rinvenire nelle lingue semitiche voci simiglianti più o meno a quelle che Dante pone in bocca a Nembrotto, il verso stesso non sia composto di parole ebraiche, o caldaiche, o arabe, chè se tale fosse, una tanta diversità di opinioni fra i poliglotti non sarebbe possibile. Infatti i commentatori moderni più serî e meglio autorevoli persistettero nel ritenere che nessun senso dovesse in sè racchiudere il verso in esame, oppure si appagarono di addurre un paio delle sopramentovate dichiarazioni, lasciandone libero il giudizio al lettore. Ma ecco venir fuori recentemente una nuova interpretazione che incomincia dal voler essere un esercizio di dialettica ed un calcolo di probabilità, e finisce col pretendere di essere la sola che abbia ragione e fondamento di essere e col desiderare di venir elevata al grado di verità dimostrata. È questa l'ipotesi del dottore Barzilai (Rafel mai amech zabi almi. Discorso ecc. Trieste 1872). Esaminiamola.

Dopo aver procurato di dimostrare che il verso in esame debba pur avere un senso, il Barzilai procede facendo questa osservazione: «Quantunque volte e il duca e il suo alunno abbattonsi in Demoni o Fiere, che posti a guardia dei varchi o delle principali stazioni dello inferno, rivolgono ad essi la loro parola, questa, o assuma forma di consiglio, o, come avviene più spesso, di minaccia, ella si riassume sempre e costantemente in questo concetto: Desista il temerario dal folle e a lui pericoloso tentativo, di volere invadere, vivente ancora, i regni della morte, e, ricalcando le proprie orme, rieda al mondo dei vivi.» Quest' osservazione è giustissima, e dedotta da molti passi di Dante stesso. Dunque, conchiude il Barzilai, se il verso che ci occupa, nella mente di Dante aveva un significato, esso dovrà contenere «l' espressione dell' ira, del dispetto o di altra analoga passione al giungere di colui che senza morte Va per lo regno della morta gente. Consiglio cioè, o minacciosa intimazione di riedere al mondo dei viventi.» Ma a qual lingua si dovrà far ricorso onde estrinsecare il senso del verso, se uno ne ha? Il Barzilai non vuole che si ricorra nè all' arabo, nè al siriaco, ma soltanto all' ebraico ed al caldaico. Per qual ragione? Perchè il caldaico e l'ebraico erano le sole lingue da Nembrotto promiscuamente parlate ed intese. A prova di quest' ultima asserzione il dotto filologo cita il passo di Brunetto Latini, da noi citato nella nota al v. 77 del presente canto. Dunque: l' analogía vuole che il verso preso in esame contenga parole di sorpresa, ira e sdegno che Dante osi inoltrarsi nel regno de' morti, nonchè parole atte ad intimorirlo e farlo tornar indietro; e poichè Nembrotto, secondo Ser Brunetto, mutò ha sua lingua di ebrea in caldea, bisogna ricorrere a queste due, non ad altre. Sin quì anche noi potremmo andar d' accordo col dotto filologo. Ma adesso incominciano le difficoltà. Alla dimanda: E mai cosa presumibile in Dante una così perfetta conoscenza delle lingue ebraica e caldea, da renderci il significato delle parole non come sarebbe da attendersi da un fedele traduttore, ma colla profondità e dottrina più propria di un consumato filologo? A questa domanda ci si risponde anzi tutto: In Dante tutto è presumibile. No, signore; Dante non era onnisciente; ei non poteva scrivere versi in lingue da lui ignorate, e le lingue semitiche egli le ignorava non meno della greca. Per chi ha studiato Dante è questa una verità indubitabile, un assioma. Sia pure, ci si risponde, ma Dante era amicissimo del celebre orientalista Manuello, e questi poteva fare il verso in questione. E anche

qui rispondiamo con un bel no; se Manuello sapeva far versi ebraici e caldaici, Dante non era uomo da farsi fare i suoi versi da altri e da pavoneggiare colla roba altrui.

Ma anche concesso che il divin Vate si facesse fare un verso dall' amico Manuello, almeno almeno ci si concederà di esigere la prova che il verso sia correttamente scritto nella lingua alla quale vuolsi ricorrere per trovarne l'interpretazione. Ma oimè! cosa ci si insegna mai? Il verso nella sua costruzione e forma originaria suona:

[ocr errors]

(Be-amech a-rafel mai? zobi le-alma.) « Egli è questo un verso formato di parole ebraiche e caldaiche alternativamente disposte, in guisa che ad ogni parola ebraica una caldea ne succede, verso che tradotto suona: Nel pozzo tenebroso a che ne vieni? Ritorna al mondo?» Ma questo non è il verso di Dante! Certo che è, soltanto sono necessarie ancora diverse ingegnosissime operazioni. Dovendo far parlare Nembrotto in una lingua infantile, Dante «ommise a dirittura gli articoli e le preposizioni, parti queste del discorso le quali, come ognun sa, sono in ogni lingua, di creazione necessariamente posteriore, ed accennano ad una lingua già

בְּ־עָמֶק עֲרָפֶל מָאִי ? רַבִּי adulta. Eliminando dunque dalle parole עמק ערפל מאי ? סבי :le varie preposizioni articolate resta לְ־עָלְמָא

(Amech arafel mai? Zobi alma!). Nè tanto basta! Il linguaggio di Nembrotto essendo confuso, la confusione era naturalmente di doppio genere: «Confusione per l' accozzamento di parole appartenenti a lingue diverse, e confusione procedente da disposizione disordinata delle stesse o, come direbbesi per difetto di costruzione, intralciata ed oscura.>> Alterando dunque la disposizione ordinata delle parole si otterrà: Naby 20 pa N (Arafel mai amech zobi alma) cioè: Scuro a che

Pozzo? torna mondo! Ma nessuno dei tanti codici della Divina Commedia ci da la lezione Arafel. A tale objezione il Barzilai risponde con uno scherzo: «Quel cane di Nembrott si avrebbe pappato l'a di Arafel, cosa perdonabile e naturale anzi in quel vecchio fanciullone »; come se il verso lo avesse scritto Nembrotto e non Dante!

Noi non istaremo quì a combattere e confutare una ipotesi così ingegnosa e nello stesso tempo si stravagante, essendochè essa si confuta da sè stessa appunto perchè tanto ingegnosa e stravagante. Esaminiamo invece brevemente l'opinione che forma il fondamento di questa e di tutte le altre innumerevoli ipotesi sul senso del verso in esame. È egli poi vero che esso verso deve in sè comprendere un senso qualunque, o non avevano piuttosto ragione gli antichi, dicendo quelle parole esser prive di senso, e dal Poeta poste in bocca a Nembrotto per significare la confusion delle lingue che da lui nacque? Tanto più che gli avversarî stessi confessano, il fondarsi di quelli interpreti sui versi 79-81 abbia almeno un' apparenza di ragione? Quali sono le ragioni che essi adducono in contrario? - «Tutto è in Dante profondamente pensato, quando non sia pensatamente profondo. Ogni verso, ogni frase, ogni parola ha la sua ragione di essere, perfette parti di un perfettissimo tutto. Questa verità protesta a priori contro il preteso accozzamento di voci, combinato all' unico intento di produr suoni più o meno aspri e chiocci, senza che nessuna per sè isolata, nè tutte insieme collegate in quel verso, comprendano un significato qualsiasi.»> Protesta? e protesta a priori? E il nostro verso non sarebbe adunque nè profondamente pensato, nè pensatamente profondo, esso non avrebbe la sua ragione di essere, quando non rinchiudesse un senso arcano? Eh, vediamo dunque un po'! Almeno ci dovrete concedere che Dante doveva saper benissimo fra cento lettori del suo Poema esservene appena uno che possedesse le cognizioni filologiche indispensabili a comprendere il senso del verso. Dunque, continuiamo noi, egli, che scriveva pel popolo e non per i dotti (cfr. Ep. Kani Grandi, §. 10), lo scopo suo doveva essere, non di dare ai dotti un indovinello, sibbene di rappresentare, di far quasi toccar con mano una verità alla portata di tutti. E quanto stupendamente gli riuscì l'esecuzione di tale DANTE, Divina Commedia. I.

25

scopo! Facendo parlare chi secondo lui fu l'autore della fabbrica della torre babilonica e conseguentemente la causa della confusion delle lingue, egli doveva e voleva illustrare co' suoi versi la notizia biblica, che l' uno non intendera il linguaggio dell' altro. Dunque ei non poteva far parlare il gigante in un linguaggio che, se da noi non è inteso che da un picciol numero di dotti, è pur sempre un linguaggio parlato ed inteso da migliaia di uomini. Questo no che non sarebbe stato nè profondamente pensato, nè pensatamente profondo, ma un puro capriccio, un gioco poco più che fanciullesco, e capricci e giochi fanciulleschi non hanno infatti ragione di essere nel Poema sacro. Ma mettendo in bocca a Nembrotto voci, suoni, accenti che in nessun linguaggio umano comprendono in sè un senso qualunque, egli mostrava ad evidenza la verità che l'uno non intendeva it linguaggio dell' altro, e mostrava inoltre che la pena inflitta già dall' Eterno al superbo gigante è eterna, e che anche nell' inferno quell' orgoglioso è condannato a non intender giammai alcun altro e a non esser inteso da nessuno, nemmeno dai dannati e dai demoni. Or che ve ne pare? È il suo verso pensato e profondo, ha esso ragione di essere, sì o no? - No? Allora scusateci, i nostri cervelli sono tanto diversamente organizzati, che noi non andremo mai d' accordo nelle nostre opinioni e nei nostri giudici. La ragione addotta non è però la sola su cui gli avversari fondano la loro opinione. Il vociferare di Nembrotto è da Virgilio chiamato un linguaggio, ciocchè mostra attribuirvi egli un senso qualunque.» Risposta: Linguaggio è l' espressione di concetti in parole. Or la Genesi non dice che gli uomini in seguito alla edificazione della famosa torre perdessero l'uso della favella, la facoltà di esprimere i loro concetti, le loro idee in parole, ma essa dice che i linguaggi furono confusi in modo, che l'uno non comprendeva le parole colle quali l'altro esprimeva i suoi concetti. Dunque anche Dante non poteva negare al gigante la facoltà di esprimersi in parole, e per questo Virgilio chiama il suo vociferare un linguaggio; ma le sue parole dovevano, conforme la tradizione biblica, esser tali, che nessuno le intendesse, e per questo Virgilio aggiunge che quel linguaggio a nullo è noto. - «Dante non è tale che sprechi un intero verso per nulla dire.» Risposta: un verso che ci presenta una viva imagine della confusione delle lingue, e ci lascia indovinare nello stesso tempo uno fra i supplizi di quell' anima, non è sprecato, anzi dice più che con altre parole si avrebbe potuto dire in molte terzine. «Dante non è tale che si lasci, nemmanco nelle minime cose, guidare dall' arbitrio e dal capriccio." Risposta: se Dante voleva presentarci un linguaggio non inteso da nessuno, egli era costretto di usar voci prive di senso, nè ciò era un arbitrio od un capriccio. Bensi sarebbe stato un arbitrio ed un capriccio ridicolo il far parlare Nembrotto in un linguaggio parlato ed inteso da migliaia di uomini su nel mondo, e da mille migliaia di anime dell' inferno (chè i Giudei e i Caldei non saranno probabilmente iti tutti quanti in Paradiso), e poi far dire a Virgilio che tal linguaggio a nullo è noto. « L' affermare d' un linguaggio che a nullo sia noto, o non ha senso od implica evidentemente una contradizione in termini.» Risposta: il linguaggio di Nembrotto è noto a chi lo parla, ma a nessuno di coloro che lo ascoltano; il gigante sa cosa vuol dire, ma non si esprime in termini conosciuti da altri. La facoltà di esprimere in parole i suoi concetti è un linguaggio, quand' anche le parole usate non siano note che a colui che le usa. «O il linguaggio di Nembrott era noto a Virgilio, e perchè esclusivamente a lui e non ad altri ancora?» Risposta: non era noto nè a Virgilio nè ad altri. «Se non lo era, e come poteva egli, Virgilio, sentenziare intorno all' ignoto? D' un linguaggio qualunque si potrà ben dire, io non lo comprendo; ma da questo semplicissimo fatto inferire che nessuno lo comprenda, quando non sia un resultato di pazzo orgoglio, è senza meno un' insulto alla logica ed al buon senso.» Risposta: nelle regioni dell' eternità il divario dei linguaggi è sparito. Dante e Virgilio s' intrattengono con ogni razza di spiriti, senza aver bisogno d' interpreti. Ulisse intende il parlar lombardo (Inf. XXVII, 20. 21) ecc. Soltanto Nembrotto e i complici del suo delitto soffrono, oltre alle altre, la pena di non intendere nessuno e di non esser intesi da nessuno. E il sacio gentil che tutto seppe, che abitava già da secoli nell' inferno, che era già sceso una volta giù nel cerchio di Giuda, doveva pur conoscere questa circostanza, doveva sapere che nessuno intende quel linguaggio. O diteci di grazia! Avrebbe

« AnteriorContinuar »